Ciò di cui ha bisogno l’olivicoltura italiana è un atto di coraggio

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Ciò di cui ha bisogno l’olivicoltura italiana è un atto di coraggio

Conversazione con il Marchese L. Frescobaldi

 Non abbiate paura dell’olivicoltura che abbraccia il progresso

“Ci siamo fatti travolgere. L’imprenditore il timore lo cova sempre. Se poi le circostanze e le soluzioni non aiutano, si viene sopraffatti. Noi invece dobbiamo rifare gli oliveti. Abbiamo rifatto i vigneti, e oggi il vino italiano ha effettuato un salto straordinario. E ora lo stesso passo lo si può fare con l’olio, ma dobbiamo agire” di Luigi Caricato.

Il mondo olivicolo è sempre stato all’ombra di quello viticolo. Da una parte c’è un’imprenditoria poco incline a investire, chiusa nella rassicurante morsa della Tradizione (quella con la T maiuscola, ovviamente: “Sì è sempre fatto così, perché cambiare?”); dall’altra c’è l’effervescenza e il desiderio continuo di scommettere sul futuro e proiettarsi sempre in avanti, accettando le sfide, e con queste pure i rischi di sbagliare. È per questo motivo che gli olivicoltori li troviamo troppe volte seduti sui grandi fasti del passato (sì, ma quale?), coltivando l’idea di una olivicoltura proiettata all’indietro, in una fantomatica “età dell’oro” che non cambia mai (non cambia, anche perché non c’è mai stata una olivicoltura migliore e potenzialmente più efficiente di quella attuale).

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L’olivicoltura è sempre stata concepita come un ripiego: essendo una pianta rustica, l’idea è che si adatti un po’ a tutte le condizioni, e ciò per molti forse può essere sufficiente per rassicurare gli animi e rimanere nell’ottica di una estrema fedeltà alla Tradizione, dimenticandosi però del presente e trascurando di fatto il futuro. Così, non si investe più danaro e nemmeno si sviluppano idee (sì, perché in mancanza di danaro le idee, almeno, aiutano). Di conseguenza, e un po’ per auto consolarmi, ho pensato bene di mettere mero su bianco il parere di un imprenditore espressione di una famiglia storica, sulla scena da secoli, sia in ambito vitivinicolo, sia in ambito olivicolo e oleario. Ho incontrato Lamberto Frescobaldi nell’ambito dell’ultima edizione del Simei. L’ho scelto non solo per la sua riconosciuta professionalità di imprenditore, ma anche per il ruolo di presidente dell’Unione italiana vini, l’occasione giusta, questo scambio di visioni, utile per far emergere quanto è opportuno evidenziare in tempi in cui siamo chiamati a fare delle scelte: si tratta di dire la verità (nient’altro che la verità) sullo stato delle cose, sullo stato della realtà.

Frescobaldi non ha alcuna esitazione nel sostenere che sull’olivicoltura l’Italia sia rimasta indietro. È un dato di fatto. Molto indietro, aggiungo io. Il perché è presto detto: “ci siamo fatti travolgere dalle nostre paure”, ha detto. “L’imprenditore – chiarisce Lamberto Frescobaldi – il timore lo cova sempre in sé. Se poi le circostanze e le soluzioni non aiutano, si viene travolti”. Ma sono proprio le paure a generare in noi quella innata, profonda, opposizione a ogni difficoltà che si presenti all’appello. “Noi abbiamo avuto un fatto molto importante che ci ha fatto reagire: la gelata del 1985. In quella settimana di gennaio buona parte del patrimonio olivicolo fu distrutto”, rammenta con un filo di emozione il marchese Frescobaldi. Non tutti hanno reagito allo stesso modo: “Ognuno aveva le proprie teorie, ma nessuno aveva chiaro che l’olivicoltura doveva essere riformata”. Ecco allora riaffiorare un ricordo del passato: “Nel 1933 venne emanato un regio decreto, proprio mentre si era in piena crisi economica. Si vietò di utilizzare gli ulivi per scaldarsi. Si negò il ricorso a questa pratica di molti agricoltori dell’epoca. Tale divieto, è tuttora attuale”. Insomma, resiste ancora l’idea che gli olivi debbano restare dove sono stati piantati per sempre. Permane ancora oggi una forma di resistenza anche alla sola idea di cambiare lo scenario varietale. Guai a mettere a dimora cultivar straniere, si accettano solo olivigni italiani.

Luigi Caricato, Direttore di Olio Officina Magazine
Luigi Caricato, Direttore di Olio Officina Magazine

“Nel mondo del vino – riconosce Frescobaldi – l’imprenditore è stato molto libero di spaziare, anche con varietà di uve non italiane, le quali, peraltro, hanno assicurato delle grandi opportunità per il nostro Paese”. Ecco, dunque: servirebbe una maggiore libertà di azione anche in olivicoltura. “Adesso – afferma Frescobaldi – ci sono olivete che io preferirei chiamarle a parete, che un po’ ricordano i frutteti”. Già, perché è sempre bene ricordarlo: la frutticoltura italiana si è sviluppata molto in tutti questi anni”.

Perciò, “non possiamo pensare di mandare le persone a raccogliere le olive sulle scale: la gente si fa male”, avverte il Marchese. “Quando si raccolgono le olive, nel mentre si è sopra una scala, il tempo che intercorre dallo stacco della drupa a quando si frange è lunghissimo. Noi invece dobbiamo velocizzare questa operazione. Ci sono tantissime olivete altamente meccanizzate e ben congegnate. Adesso mi sto impegnando in questa direzione, ma ricevo critiche un po’ da tutti. Tuttavia, a parte le critiche, c’è da osservare la realtà delle cose per quello che è: l’olio prodotto secondo i canoni di una olivicoltura più efficiente è davvero molto buono”. Forse occorre partire proprio da questo assunto per rasserenare coloro che non credono in una olivicoltura che non sia ancorata alla tradizione. Frescobaldi non ha esitazioni: “L’olivicoltura in Italia è ai minimi termini.

Noi dobbiamo pensare a rifare l’oliveto. Abbiamo rifatto i vigneti – prima negli anni ‘60, poi ‘90, e poi nel 2000 – e oggi il vino italiano ha compiuto un salto straordinario. Sono convinto che lo si possa fare anche con l’olio, ma non dobbiamo aver paura ed essere travolti da questo timore che ci impedisce di agire”. Ecco, a partire da queste riflessioni, torniamo al classico paragone con il mondo del vino, giusto per chiarirci le idee e ragionare sulle scelte da compiere. “Il grande vino – lo sostiene con grande convinzione Frescobaldi – oggi non lo vendiamo più per il vitigno ma per la zona di produzione, e addirittura per il vigneto: diciamo infatti che questo è il vigneto X. La varietà è secondaria: è il vigneto a esprimere tutto.

Lo stesso deve valere per l’oliveto. Noi dobbiamo perseguire la qualità, la qualità assoluta, che è fatta da alcuni fondamentali, come la raccolta nei tempi giusti e in velocità straordinaria; quindi, nel momento in cui si stacca la drupa dall’albero, dobbiamo già immaginare l’oliva nell’atto in cui si frange. Questo aspetto non rientra molto nella nostra cultura, perché la molitura al frantoio l’abbiamo sempre pagata a peso. Quindi, tante olive uguale tanto costo. E che dire allora delle persone che tenevano le olive da parte in modo che perdessero un po’ d’acqua affinché pesassero meno così da poter spendere altrettanto meno? Con questa logica però non si fa un buon olio”.

Insomma, se queste considerazioni di Lamberto Frescobaldi possono servire agli olivicoltori più incerti, allora sì, che ci aiutino pure a superare tutti i possibili pregiudizi: l’olivicoltura deve correre in avanti e non aver paura del futuro. L’olivicoltura, e io lo sostengo ormai da decenni, o si rinnova o scompare. Deve valere la regola dell’et-et, non dell’aut-aut. Dunque, ricapitolando: e-e, anziché o-o: meglio e questo e quello, anziché o questo o quello, e insomma, per intenderci: l’olivicoltura tradizionale (sì, ma – attenzione! – solo se rinnovata e adeguata ai tempi, meccanizzandola fino a quanto sia possibile fare) e, insieme, l’olivicoltura moderna, quella ad alta densità (sempre laddove ciò sia possibile, ovvero dove non ci sono situazioni orografiche ardue); e non, come spesso accade, essere chiusi nell’estremismo: o questa o quella soluzione.

Far convivere le diverse espressioni di olivicoltura è fondamentale, come è altrettanto necessario uscir fuori dagli schemi fondati su sterili (e inattuali) preconcetti. L’olivicoltura deve essere concepita per essere economicamente sostenibile, anche perché se non vi è una giusta remunerazione a nulla serve parlare più di olivicoltura: sono tanti gli oliveti in stato di abbandono. Il futuro, dunque, sia sempre aperto al progresso, e non può essere diversamente, d’altra parte: chi rifiuta il progresso nega il senso profondo dell’avvenuta domesticazione dell’olivastro. Non va mai dimenticato che l’arbusto selvatico è divenuto nel corso dei millenni l’olivo che oggi coltiviamo per opera dell’uomo. L’olivicoltura è progresso. L’olio è progresso.

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